Perché ci diverte premere dei tasti
davanti a uno schermo? Una domanda filosofica a cui è difficile
rispondere anche perché si sa l'arte è quasi impossibile da
spiegare. Quello che possiamo fare è tentare di capire come
funzionano la maggior parte dell'intrattenimento videoludico che
tanto ci piace. La scorsa volta abbiamo visto brevemente
alcune meccaniche di gameplay che sembrano causare il tanto ricercato
“divertimento”, continuiamo quindi iniziando a parlare di un
genere di gioco dove il divertimento è proibito!
Quando lo schema di gioco è talmente
preciso e bilanciato da farlo sembrare una partita a scacchi ci si
inoltra nella terribile zona del pro gaming. Qui il senso principale
dell'esperienza non è la storia o il gameplay fine a sé stesso ma
piuttosto la competizione; con questo non voglio dire che non ci si
possa comunque svagare con un partita online a Street Fighter IV o a
Starcraft, i problemi iniziano quando il gioco diventa uno strumento
per affermarsi sugli altri ovvero quando il divertimento significa
vincere a tutti i costi. Nei giochi singleplayer siamo consapevoli di
giocare contro un intelligenza artificiale più o meno avanzata ma
nel multiplayer sono tutti esseri umani quelli che sfidiamo e si sa,
tutti vogliamo primeggiare. Tornando a parlare di meccaniche in
questo tipo di gioco l'obiettivo è appunto sconfiggere il giocatore
avversario, anche in questo caso quindi non è il gioco a
ricompensare il giocatore per la sua bravura ma sono gli avversari la
vera sfida trasformando quindi il classico binomio uomo contro
macchina a uomo contro uomo.
Che sia una macchina o un uomo stiamo
sempre sfidando qualcuno, esistono però anche casi dove in realtà
il giocatore si sta sfidando da solo. Si tratta dei rhythm games
come Guitar Hero o Dance Dance Revolution, giochi dove essenzialmente
l'unica variabile viene messa dal giocatore stesso. Ogni livello si
evolve esattamente allo stesso modo questo perché non ci sono delle
vere e proprie scelte da compiere come saltare su quel nemico
piuttosto che schivarlo o posizionare i blocchi che
cadono, tutto si risolve premendo un tasto al momento giusto. Se si
sbaglia non cambia niente se non il punteggio perché il gioco
continua ad andare avanti allo stesso modo ogni singola volta che lo
si fa partire. Questo tipo di gameplay per quanto semplice ed
essenziale funziona bene per diversi motivi: innanzitutto perché
togliendo tutte le variabili possibili di un gioco normale il
giocatore si può concentrare su un compito solo e questo lo possono
fare anche le persone meno pratiche del mondo videoludico e con
questo non voglio dire che i “casual gamers” sono stupidi,
semplicemente molte persone faticano a entrare nel mondo del gaming
perché spesso non si ha idea di che cosa bisogna fare e cosa
aspettarsi. Questo gameplay invece oltre ad essere immediato
nell'esecuzione è anche immediato nella ricompensa: quando si preme
il tasto giusto appaiono scritte luminose e altri effetti piacevoli
per non parlare del gesto in sé che pur essendo simbolico e stereotipato (premere dei tasti su una chitarra finta non è suonare, muoversi su
quattro pedane non è ballare ecc.) fa sentire il giocatore come una vera
e propria star.
Il fatto di far sentire il giocatore in
un certo modo è sicuramente un plus e ultimamente molti giochi
soprattutto del panorama indie stanno tentando di focalizzarsi
completamente su questo. Con il termine far sentire qualcosa non
intendo provocare emozioni dovuti a una storia appassionante come
descritto precedentemente, piuttosto parlo di giochi dove lo
sviluppatore tenta di evocare certe emozioni basandosi sull'atmosfera
per comunicare un messaggio più grande. Detto così può sembrare un
cosa arrogante pensata da gente un po' troppo esaltata e ahimé
purtroppo è così in tantissimi casi, basta aprire Steam e cercare i
giochi indie per accorgersene. Molti sviluppatori sono convinti che
con una grafica 8 bit (più veloce da fare e che punta alla nostalgia
dei giocatori) un gameplay minimalista e qualche riga di testo un po
criptica si possa fare un capolavoro artistico ma non è così
semplice. Quando un gioco vuole parlare al giocatore deve per forza
proporre dei contenuti particolari che fanno tralasciare il gameplay
ma non per questo ignorarlo del tutto perché alla fine si tratta
comunque di un esperienza interattiva. Alla sfida quindi si aggiunge
un altro livello di “divertimento” uno che punta
sull'egocentrismo del giocatore quel senso di “ah ho capito cosa
intendi dire, ci sono passato anch'io” e la fa sembrare una cosa
personale quando in realtà è quello che proviamo tutti chi più chi
meno, così facendo ci si affeziona al gioco e si prova a finirlo in
tutti i modi nella speranza di trovare qualche altro momento di
empatia con esso.
A presto la parte 3 dove finirò il
discorso e tenterò di trarre qualche conclusione!
Nessun commento:
Posta un commento