sabato 2 novembre 2013

Come funziona il gaming? Parte 1

La scorsa settimana ho incominciato a giocare a The Stanley Parable, un gioco altamente consigliato nonostante il prezzo forse un po' troppo alto in relazione ai contenuti offerti. Questo gioco però (di cui non vi dirò niente per non rovinarvi le sorprese) mi ha fatto riflettere su come funziona un videogame o meglio che cosa ci si aspetta di fare. Lo so che può sembrare una di quelle assurde domande filosofiche piene di questioni esistenziali ma alla fine della fiera le uniche domande da porsi sono: “Cosa devo fare in questo gioco?” e “Fare queste cose mi ha divertito?”.
Per rispondere guardiamo brevemente ai vari tipi di gioco possibili e facciamolo partendo dall'inizio.


Nei giochi tipo Pong o Space Invaders l'unico scopo è quello di fare punti attraverso una semplice meccanica di gameplay come distruggere gli alieni che scendono giù. Personalmente ho sempre trovato giochi del genere altamente noiosi forse perché essendo nato molto dopo la loro uscita sono stato viziato con cose più complesse tuttavia il fascino di questa meccanica è innegabile, più si è bravi a giocare più punti si ricevono, fattori come fortuna o sfortuna non contano sta tutto nell'abilità e la ricompensa è un numero, l'high score che si ottiene alla fine. Una sola azione determina il gioco e pur essendoci molte combinazioni disponibili il gioco è sempre lo stesso. I blocchi di Tetris continuano a scendere, gli alieni in Space Invaders continuano ad arrivare e i livelli di Pacman si ripetono. L'unico modo per finire il gioco è battere la macchina, ovvero continuare finché il punteggio non può più salire. Molti gamers amano ancora questo tipo di gioco ma facciamo un passo avanti e passiamo a un altro tipo di obiettivo.



La maggior parte dei giochi moderni ha un inizio e una fine, il bello di questi giochi è che si ha un senso di progressione, magari alcuni livelli di Super Mario Bros si assomigliano ma non sono mai uguali e questo è importante perché ci si crea delle aspettative. Non tanto per la storia che è ancora una parte marginale del gioco ma per i livelli. Il giocatore vuole vedere cosa c'è dopo, e per farlo bisogna essere abili nel tipo di gameplay che il gioco propone. Il fatto che il gioco finisce è la cosa importante che da profondità al gioco e che ricompensa il giocatore per i suoi sforzi. In questo tipo di esperienza però mancano ancora diverse cose.


Un gioco non deve essere per forza solo gameplay e non deve necessariamente esistere per potenziare l'ego del giocatore. Un buon gioco può anche essere un occasione per raccontare una storia, una storia interattiva. Le avventure grafiche e alcuni rpg seguono questo principio: il gameplay c'è ma è trainato dalla narrazione e spesso il gamer tende a tralasciarlo del tutto una volta che si appassiona alla trama. Tantissime volte ho continuato un titolo solo perché mi interessava la storia anche se il gameplay era orrendo, i miei pensieri erano del tipo “ma perchè non è un libro o un film?”. Molti gamer tendono a snobbare giochi del genere perché l'abilità del giocatore va in secondo piano e per alcuni è inaccettabile: come fa il giocatore a sentirsi realizzato senza una sfida?


Ma il bisogno di una sfida è veramente necessario? Ci sono anche giochi che non propongono nessuna sfida, non ti dicono cosa fare, non cercano neanche di farti appassionare alla storia, ti lasciano da solo a fare quello che vuoi nei limiti del gameplay. I cosiddetti sandbox funzionano in questo modo: ogni giocatore può crearsi la sua sfida personale, la sua storia. Prendiamo il fenomeno The Sims, la sua premessa è semplice e inquietante allo stesso tempo: puoi far vivere delle persone come vuoi tu. Puoi simulare la vita che hai sempre desiderato e puoi causare le peggiori sofferenze con qualche clic. Dov'è il divertimento? Per capirlo dobbiamo esplorare brevemente il concetto di escapismo. Alle persone piace immaginarsi altri mondi e situazioni diverse dalla loro, questo per scappare dalla realtà in cui vivono e che spesso non è all'altezza delle aspettative. Come tutte le cose se portata agli estremi può diventare una condizione patologica ma è anche una caratteristica necessaria per non impazzire. Creare dei mondi virtuali alimenta queste fantasie e per alcuni è un occasione unica nonché una valvola di sfogo. In questo caso il giocatore non cerca più un significato nella sfida ma piuttosto se lo crea da solo.


A breve la parte 2

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